Nel 1990 a Boston si consuma il più grande furto di quadri della storia. Come è successo e, soprattutto, chi è stato?
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Studiare storia dell’arte e fare i big money
Alcune persone sostengono che studiare storia dell’arte sia inutile. Di solito questa affermazione fa sollevare un coro di illustratori che cogliono obiettare, non sempre con ottimi risultati. Ma conoscere la storia dell’arte e il valore intrinseco dei grandi capolavori, non serve solo agli artisti e agli operatori culturali. Fa comodo anche ai ladri d’arte. E no, non intendo i disegnatori incapaci che plagiano quelli più bravi.
Il furto di quadri al museo Isabella Stewart Gardner è passato alla storia come la rapina più redditizia della storia della pittura, con un bottino valutato tra i 400 e i 600 milioni di dollari. Ma come vedremo, se solo i rapinatori avessero studiato un po’ meglio la materia, avrebbero potuto raddoppiare facilmente il loro bottino. Ma andiamo con ordine.
Chi era Isabella?
Isabella Stewart, la tipa che ha dato il nome al museo derubato, nasce a New York nel 1840, da una famiglia molto ricca. Dopo una serie di tragedie familiari culminate con la morte del figlio, decide di viaggiare per l’Europa e realizzare il suo sogno da bambina: fondare un museo.
Inizia a collezionare opere d’arte in tutta Europa e le sistema nella sua villa in una collezione aperta agli appassionati. Ben presto diventa un’intellettuale eccentrica conosciuta in tutti gli Stati Uniti e i visitatori diventano sempre più numerosi. A inizio ‘900 la faccenda diventa insostenibile e Isabella fa costruire l’edificio che ospiterà la sua collezione.
Nel 1903 viene inaugurato il Museo Isabella Stewart Gardner, che contiene alcune delle opere più celebri di Tiziano, Rembrandt, Vermeer, e molti altri, assieme ad arazzi, sculture e altre opere di ogni epoca e cultura.
Isabella Stewart farà da mecenate a un sacco di artisti e musicisti, e organizzerà eventi grandiosi ed eccentrici alla grande Gatsby fino alla sua morte, per infarto, nel 1924. Priva di eredi, lascia una cospicua somma al museo per restare aperto. Ma a una condizione: che la collezione e la disposizione dei quadri non vengano alterate, altrimenti la proprietà dei quadri passerà all’università di Harvard, e addio museo.
Il museo Isabella Stewart Gardner
L’edificio del museo è un palazzo in stile rinascimentale alla cui progettazione partecipa anche Isabella. Alla sua morte ha predisposto accordi vari con banche e associazioni in modo che, quando il suo lascito sarà finito, il muso possa continuare ad esistere. Ma col passare del tempo, i soldi sono sempre meno.
Nel 1988 il museo ha problemi sempre più gravi. L’edificio sta cadendo a pezzi, ma restaurarlo costa troppo e non si può spostare la sede del museo, altrimenti i quadri finiranno ad Harvard. Ma la ristrutturazione non è l’unico problema. I quadri della collezione valgono un sacco di soldi e la sicurezza del museo è rimasta ferma agli anni ‘20. L’edificio è quasi del tutto privo di videocamere, i sistemi di allarme sono pochi e c’è un singolo pulsante per avvertire la polizia automaticamente, in caso di emergenza.
Le poche guardie di sicurezza sono pagate poco e conoscono bene i problemi di sicurezza del museo. Quando chiedono un aumento, i curatori del museo rifiutano.
Allo stesso modo, l’installazione di sistemi di videocamere viene visto come troppo costoso, senza contare il rischio di alterare troppo l’edificio e far finire i quadri nelle grinfie di Harvard. Mantenere il possesso dei quadri è la priorità numero uno, per il museo.
Ogni tanto la vita è maleficamente ironica.
Arriva la polizia
La notte del 17 marzo 1990, due poliziotti si fanno strada tra ragazzini e ubriaconi che festeggiano il giorno di San Patrizio, e arrivano al museo Isabella Stewart Gardner. Suonano il campanello all’una e ventiquattro. Alla reception c’è Rick Abath, un giovane studente che arrotonda facendo la guardia museale.
“Siamo la polizia, facci entrare. Ci hanno riferito di disordini nel vostro cortile interno.”
Abath non ha sentito niente, ma il palazzo è enorme e lavorare a quell’ora mette sonno. Forse qualcuno è entrato senza che se ne accorgesse?
Apre la porta e i due poliziotti entrano. Abath chiede cosa sia successo, ma un poliziotto si mette a fissarlo. “Assomigli a un delinquente a cui stiamo dando la caccia. Vieni qui.”
Abath, durante i lunghi turni notturni nel museo, per passare il tempo, si fa le canne e teme di essere stato scoperto. Prova a prendere tempo, ma i poliziotti lo bloccano e lo ammanettano. Pochi minuti dopo arriva il suo collega, una guardia più anziana. Chiede cosa stia succedendo e i poliziotti gli dicono che è in arresto anche lui.
“Perché?”
“Perché non siamo poliziotti. Questa è una rapina.”
La guardia risponde dicendo che lo pagano da fame e non alcuna intenzione di ostacolarli. I finti poliziotti, contenti, lo avvolgono nel nastro adesivo e lo legano assieme ad Abath. Quini iniziano il loro tour non guidato del museo.
Il più grande furto di quadri della storia
I sensori di movimento, l’unico sistema di sicurezza funzionante del museo, hanno registrato tutti gli spostamenti dei ladri. Purtroppo, invece di avvisare la polizia, mandavano notifiche ad Abath, legato come un salame. Quindi forse non erano un sistema di sicurezza davvero funzionante. Ma in compenso sappiamo la dinamica del furto.
I due finti poliziotti iniziano la loro spesa nella sala olandese, dove scaraventano a terra due quadri di Rembrandt e distruggono le lastre di vetro che proteggono le tele. A quel punto, armati di coltello, tagliano via i quadri, lasciando un palmo di dipinto appiccicato alle cornici.
Nei film i ladri d’arte operano sempre così, e portano via i quadri arrotolati come pergamene. Di solito la scusa è facilitare il trasporto ed evitare danni gravi come sfondare la tela. In realtà se non stai rubando la Zattera della Medusa o un altro quadro di dimensioni demenziali, e se il tuo mezzo di fuga è più capiente di una bicicletta, non sembra una grande idea. Tolto il danno al contorno del dipinto, arrotolando tele antiche è probabile che si staccheranno croste di colore e si rovinerà il quadro.
Mi raccomando, se avete intenzione di rubare qualche grande capolavoro, fatelo come Cristo comanda, evitando di distruggerlo. O cercate quantomeno di essere artisti postmoderni famosi in modo che i vostri tagli abbiano un grande significato artistico e aumentino il valore del quadro.
Il furto di quadri continua
Le avventure artistiche dei due finti poliziotti continuano con altri tagli di quadri (nel caso che ve lo chiedeste, nessuna delle opere tagliate via era più lunga di un metro e mezzo). Prendono un autoritratto di Rembrandt, un quadro di Flinck, uno di Manet, una serie di schizzi di Degas e per finire il loro pezzo forte: il Concerto a Tre di Vermeer, mezzo metro quadro di tela e colore valutato 250 milioni di dollari. Anche se, visti i bordi tagliati, forse vale qualche milione in meno oggi.
I due finti poliziotti si prendono il loro tempo per tagliare via i quadri, ma qui le loro carenze in storia dell’arte si fanno sentire. Ignorano completamente delle opere di Michelangelo e Tiziano che, da sole, sono valutate il doppio del quadro di Vermeer.
In ogni caso, dopo 81 minuti di bricolage con opere rinascimentali e impressioniste, i ladri decidono di tagliare la corda. Prima di andarsene intascano pure un antico vaso cinese e un’aquila imperiale che staccano dalla cime di una bandiera napoleonica. Salutano le due guardie legate e tagliano la corda.
Le lunghe e poco fruttuose indagini
Il giorno dopo la rapina viene allertata la polizia e, poco dopo, il caso passa all’FBI, dato che i quadri rubati potrebbero essere facilmente trasportati in un altro stato per la vendita.
Il museo nel frattempo offre una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque aiuti a ritrovare i quadri (oggi alzata a 10), e una torma di aspiranti detective inizia a dare la caccia al quadro. Tra questi, Ulrich Boser, oltre a cercare le opere, scrive anche un libro sull’argomento pieno di dettagli interessanti, The Gardner Heist. Boser, nonostante le sue preziose testimonianze, non ha ritrovato una singola opera, ma ci permette di dare un’occhiata alle indagini frustranti della polizia.
Il primo problema è la mancanza di indizi. I metodi di furto e i tempi lunghi fanno pensare che i colpevoli siano dei dilettanti, ma è anche vero che hanno lasciato decisamente poche tracce. Niente capelli, impronte digitali o altri indizi. Forse i colpevoli non erano ladri d’arte esperti, ma delinquenti professionisti sì.
Vista la mancanza di indizi, l’FBI sequestra le manette e il nastro adesivo con cui sono state bloccate le due guardie del museo. Forse troveranno tracce di dna dei delinquenti. Ma ben presto si palesa una via diversa: il colpo potrebbe essere stato organizzato dall’interno.
La guardia fattona
Abath, oltre ad essere uno studente fattone, era una guardia pagata male e perfettamente a conoscenza dei punti deboli del museo. La notte del furto è stato visto aprire brevemente la porta del museo e sostare lì davanti senza far nulla per qualche minuto. Forse era un segnale per avvertire i ladri? O una meritata pausa-canna dopo un duro quarto d’ora di lavoro?
Ma le azioni sospette di Abath non finiscono qui. I sistemi di sicurezza nella sala con il quadro di Manet, infatti, vengono disattivati dopo il suo giro di controllo. Forse li ha spenti per far muovere i ladri più agevolmente?
Ma l’ultimo indizio è il più duro di tutti. Abath, la notte precedente, è stato visto alla porta mentre chiacchierava con un uomo vestito da civile, forse uno dei due finti poliziotti in cerca di un complice nel museo.
L’FBI interroga Abath che dice di non ricordare e di non aver fatto nulla. I sospetti si fanno sempre più forti, quando viene fuori che l’uomo misterioso con cui Abath si stava accordando era il suo capo che gli comunicava l’orario di lavoro (lo so: se fosse stato il suo spacciatore, sarebbe stato ancora più divertente, ma la realtà ogni tanto è prosaica).
Abath viene interrogato di nuovo, assieme alle altre guardie, e il verdetto finale dei detective è che siano “troppo incompetenti o troppo idioti” per portare a segno un furto del genere.
La mafia irlandese e quella italoamericana
Stephen Kurkjian è un giornalista americano e premio Pulitzer, e si è occupato anche lui del furto. Nel suo libro, Master thieves, ci racconta un sacco di dettagli sulle indagini che hanno seguito il furto.
Cadute le accuse infondate contro Abath, l’FBI segue una pista diversa: una pista che puzza di crimine organizzato. Nei giorni successivi al furto, degli uomini sospetti si aggirano attorno al museo e cercano di entrare nella scena del crimine. Sono uomini di Bulger, un importante boss mafioso di Boston. Ma come verrà fuori in seguito ad ulteriori indagini, Bulger non è il responsabile del furto. I suoi uomini stavano ficcanasando nella scena del crimine per scoprire loro i colpevoli. Il museo, infatti, si trova nel territorio di Bulger, che vuole una tassa dai ladri per aver operato senza il suo permesso.
Scagionato dalle accuse di furto, Bulger continuerà a gestire un racket di grande successo fino al 1994, quando alcuni dei suoi sottoposti lo tradiscono. Spenderà più di 16 anni in fuga, fino al suo arresto nel 2011. Viene condannato per un gazilione di reati, tra cui 19 omicidi, e muore in carcere nel 2018.
Nel 1994 una lettera anonima arriva al museo. L’autore dice di essere l’intermediario dei ladri e che, in seguito a un tentativo fallito di vendita, sono interessati a restituirli al museo (in cambio di qualche decina di milioni, ovviamente). Dà istruzioni su come rispondere pubblicando un annuncio in codice sul giornale dell’indomani. Il curatore del museo risponde e, giorni dopo, riceve una nuova lettera, dove l’intermediario dice di aver bisogno di tempo per organizzare lo scambio e che si farà risentire. Ma non scrive più. Scomparsa anche questa pista, le indagini sembrano arrivate a un punto morto.
Merlino, il mago delle rapine
Ma se le piste di Bulger e della lettera misteriosa si rivelano buchi nell’acqua, un’altra sembra più promettente. Un’altra gang mafiosa del luogo, decisamente più piccola, è guidata da Carmello Merlino. Questo Merlino, invece di fare da mentore per il re d’Inghilterra, fa il meccanico. E l’organizzatore di rapine.
Tra i suoi progetti ci sono diversi piani per rapinare il museo. La polizia riesce ad arrestarlo per traffico di cocaina. Durante gli interrogatori gli agenti gli promettono di far cadere le accuse se li aiuterà a scoprire i colpevoli e la refurtiva.
Merlino chiama un suo sottoposto e gli ordina di trovare i quadri. Il suo sottoposto, però, viene arrestato per droga. La polizia promette anche a lui di far cadere le accuse in cambio dei quadri.
Il gioco continua in questo modo finché non vengono arrestati diversi criminali collegati a Merlino. Ma a conti fatti nessuno sa davvero dove si trovino questi quadri. Nel 2005 Carmello Merlino muore in carcere e le indagini arrivano all’ennesimo punto morto.
Robert e Robert
Nel 2010 arriva una nuova svolta con la testimonianza di Elena Guarente. Suo marito Robert Guarente, morto di malattia nel 2004, era un delinquente che lavorava per la gang di Merlino. Secondo Elena, suo marito avrebbe posseduto il Concerto di Vermeer, e nel 2000, vista la gravità della sua malattia, avrebbe dato il quadro assieme ad altre opere rubate a Robert Gentile, un altro delinquente della gang Merlino, per farle nascondere.
Gentile nega ogni responsabilità, ma nel 2012 viene arrestato per traffico di droga. La sua casa viene perquisita e gli agenti trovano una stanza segreta, sotto a un pannello mobile del pavimento. La stanza è vuota tranne che per una lista delle opere rubate seguite dal valore.
Gentile afferma che Gardner lo aveva contattato per fare da intermediario per la vendita dei quadri, ma che poi, a causa della sua malattia, non si era fatto niente. Vista l’assenza di prove inconfutabili, Gentile, scontati i suoi 3 anni di carcere per droga, viene rilasciato. Gentile verrà arrestato di nuovo per vari reati tra cui possesso non autorizzato di armi da fuoco. Ha finito di scontare la sua ultima condanna nel 2019 e, in un’intervista a Kurjian, sostiene di essere stato incastrato dall’FBI e nega ogni coinvolgimento con il furto e la vendita dei quadri.
I colpevoli, forse, ma non è importante
Nel 2013 le indagini hanno quella che finora è l’ultima svolta. L’FBI continua a indagare tra i delinquenti di Merlino e alla fine identifica i due presunti colpevoli: George Reissfelder e Lenny DiMuzio. Presunti perché purtroppo alcune delle prove della scena del crimine sono andate perdute durante gli ultimi 20 anni di indagine. Ma poco importa visto che le accuse di furto sono cadute in prescrizione. Ah, e Reissfelder e DiMuzio sono morti da più di vent’anni.
Reissfelder sarebbe morto nel 1991 per overdose, mentre DiMuzio sarebbe stato ucciso, forse da Merlino in persona, in seguito a un suo tentativo di ribellione contro il boss.
Va bene, forse i ladri sono davvero questi due criminali morti, ma i quadri? Gli agenti dell’FBI continuano a investigare e ottengono indizi che fanno pensare che alcune opere siano state vendute all’asta nei primi anni duemila. Ma anche stavolta non riescono a cavare un ragno dal buco.
La sindrome di Stendhal
A trenta anni di distanza dal furto, i presunti colpevoli sono morti, tutti i sospetti coinvolti sono deceduti o ultraottantenni e delle tredici opere d’arte rubate non c’è nessuna traccia. Il colpo al museo Isabella Stewart Gardner resta il più grande furto di quadri della storia. Finora.
La sparizione dei quadri è una tragedia, ma questo è anche un grande incentivo a studiare a storia dell’arte. Non solo perché se ritrovate le opere potete chiedere dieci milioni al museo. Ma anche perché se vorrete rubare quadri, ora sapete che dovete affittare un camioncino ed evitare di ritagliarli e spiegazzarli se non volete combinare un pasticcio.
E al di là di tutti gli insegnamenti, trovo sempre bello come un’opera d’arte possa suscitare le reazioni più intense e disparate: commozione, estasi, malessere, furto e omicidio.